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The Tribe: il film shock di Cannes 2014 arriva al ...

The Tribe: il film shock di Cannes 2014 arriva al cinema


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A pochi giorni dalla conclusione del Festival di Cannes, esce nelle sale italiane (il 28 maggio) uno dei titoli che nell’edizione passata hanno più lasciato il segno: The Tribe – Plemya. L’ucraino Myroslav Slaboshpytskiy, al suo primo lungometraggio, sviluppa ulteriormente la modalità narrativa sperimentata nel cortometraggio Deafness (2010), e racconta, utilizzando esclusivamente la lingua dei segni, l’organizzazione criminale sotterranea che governa un istituto per sordomuti .
Tra violenza e prostituzione, Sergey, l’ultimo arrivato di turno cercherà di trovare il proprio posto in questo mondo sommerso e ovattato fino a che non arriverà l’amore a mandare all’aria le regole sottese della tribù criminosa.

Una pellicola, questa, che richiede un’elevata attenzione da parte dello spettatore che può fare affidamento solo sul proprio occhio per cercare di capire che quello che sta succedendo sullo schermo. Nessun sottotitolo lo aiuta in questo compito e nessuna colonna sonora sottolinea gli stati emotivi dei personaggi: la musica lascia il posto a quella sinfonia di rumori provocati dai gesti e dall’ambiente che accoglie l’azione.

Il concept alla base del film nasce mentre Slaboshpytskiy ancora frequenta l’Istituto statale del Teatro e delle Arti a Kiev, come omaggio al cinema muto. Ma l’intenzione del regista, fin da questi lontanissimi inizi, non è quello di riprodurre dal punto di vista formale una cinematografia clinicamente morta dopo l’arrivo del sonoro, ma un cinema muto più realistico. Lontano dalla pantomima ma comunque comprensibile al pubblico.

La lingua dei segni, evocativa pur mantenendo alcune componenti linguistiche e gestuali astratte e variegate da paese a paese come da regione a regione, è risultato essere l’espediente perfetto per realizzare efficacemente un film privo di dialoghi verbali. Grazie anche ad un’azione che vede il corpo nella sua totalità, spesso messo al centro di scenari crudi e delicatissimi, come unico mezzo comunicativo.

La lingua dei segni può ricordarci una specie di danza e spesso è stata utilizzata come forte elemento coreografico, un esempio su tutti si rintraccia nello spettacolo Nelken di Pina Bausch (1982), dove un ballerino in abito scuro, al centro del palco di un teatro tappezzato di fiori segna la canzone “The man I love“. Una coreografia apprezzabile soprattutto per noi udenti, dove un gesto e un contesto già di per sè poetici fino a far male vengono arricchiti da un sottofondo musicale (e nemmeno un sottofondo musicale qualsiasi).
Lo spettatore viene quindi accolto e non fa alcuna fatica a farsi accogliere da un linguaggio che, attraverso una stretta codifica piegata dalla ritmicità del suono che l’accompagna, perde la sua funzione primaria.

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Nelken di Pina Bausch

Sta proprio qui la vera differenza che può disturbare lo spettatore nonostante l’intorpidimento ipnotico al quale The Tribe lo sottopone. La lingua dei segni della pellicola, segnata da veri attori sordomuti alla loro primissima esperienza cinematografica, è lingua effettiva in quanto effettivamente comunicativa di un’esigenza o di un’emozione.

E le mani non solo parlano, ma vengono spinte dal tutto il corpo, dal volto in primo luogo, vero specchio dell’intenzione alla base della frase “proclamata”. Percorso da ogni tipo di sentimento al quale viene di certo privata la verbalizzazione, ma mai la più genuina possibilità espressiva.

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Beatrice Lombardi

Laureanda presso il CITEM di Bologna è nata 26 anni fa dal tubo catodico. Dopo anni di amore e odio con mamma Televisione e papà Cinema ha deciso di percorrere nuove strade ed è scappata con il Web.

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