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“Prigioni della mente”: un viaggio fotografico, a cura di Ivan Agatiello, nei manicomi abbandonati


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Ciao Ivan! Voglio iniziare con una domanda “bomba”: chi non sarà mai Ivan Agatiello come persona e come fotografo?
Ciao Claudia! Credevo di dover cominciare con le richieste comuni, con le parole semplici. Invece hai già utilizzato l’arma migliore. Uno si abitua a pensare a chi o cosa possa essere un giorno, invece tu mi chiedi chi non sarò mai. Mi piace.
Non sarò mai un uomo al passo con i tempi. Non sarò mai quello che cavalca le mode, che si adegua agli stili, che tiene il ritmo di tutta questa frenesia. È un mio limite, perchè saperlo fare vuol dire saper stare al mondo. Perché è vero che in questi tempi chiedere è stato sostituito da pretendere, collaborare da competere e meritare da comprare. Oggi o stai da una parte, che è quella di chi ogni giorno deve sopravvivere, o dall’altra, che è quella di chi ha capito che egoismo porta a successo. E se la gode. Ecco, io non sarò mai uno che possa godersela. A me basta lavare le mani sporche di lavoro, avere un jeans (a zampa!) pulito in armadio e bere un buon bicchiere sempre in compagnia: sorrido con poco. Come fotografo? Probabilmente (anzi, sicuramente) non sarò mai Richardson. Lui ha l’abilità di svuotare i soggetti: pura scena, niente essenza. Crudo, nudo, d’impatto, trasgressivo. Uno come me sente invece la necessità di imprigionare in una fotografia tutto quello che non si vede, tutto quello che la pelle cela. Ogni scatto ti si deve aggrappare addosso con tutto il peso delle emozioni che ci sono finite dentro. Deve ferirti, eccitarti, cambiarti.

Oggi parliamo del tuo ultimo progetto fotografico “Prigioni della mente. Quel che resta di quel che era”; una serie di fotografie che affrontano una tematica molto delicata ovvero quella dei manicomi: com’è nato questo progetto e qual è il fine ultimo che racchiude in sé?
“Prigioni della Mente – Quel che resta di Quel che era” nasce per pura e smisurata curiosità. Nell’arco della mia breve vita ho toccato con mano alcune realtà “diverse”: un maestro di musica, un insegnante, un vagabondo, un pittore. Tutte menti un passo oltre il reale. Tutti occhi che avevano condiviso la stessa condizione, mani che avevano sfiorato le stesse mura. Quando nel 2013 ho scoperto che alcune di quelle stanze erano nascoste nella provincia in cui vivevo, non ho saputo resistere alla tentazione di guardare, di capire. E’ stato come cambiare pianeta. Dentro è tutto diverso. E devi andare avanti. Non puoi accontentarti. Non pensi “adesso so, adesso ho visto”. E ricominci: da un’altra parte, in un’altra città, in un’altra regione. Ogni istituto un nuovo particolare, una storia diversa, ma sempre uguale. Dopo il terzo Ospedale Psichiatrico ho capito che il silenzio di quei posti aveva bisogno di una luce. Non ho mai pensato di giudicare cosa fosse accaduto, né di testimoniare successi o errori della nostra cultura. Semplicemente, volevo portare dentro quelle stanze tutti coloro che non hanno mai guardato oltre quelle mura. Volevo mostrare come fosse il mondo fuori, visto dall’interno di quelle finestre. E’ questo il vero obiettivo: trasportare il mondo “normale” in uno di quei padiglioni.

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Quel che mi colpisce delle tue fotografie è l’uso quasi totale del bianco e nero, quasi a voler sottolineare ancor di più il carattere evocativo di quei luoghi, di quelle storie: come ti sei approcciato, mentalmente ed emotivamente, a questo lavoro?
Il bianco&nero come scelta predominante per questo viaggio è in verità figlio di un racconto: ho avuto una volta l’opportunità di parlare con una donna che aveva trascorso qualche tempo in quegli spazi. Sento ancora il suono delle sue parole alla domanda “com’era la vita lì dentro?”. “Sempre uguale. Avevamo tutte gli stessi abiti, tutte gli stessi orari e tutte gli stessi desideri: andar fuori e fumare una benedetta sigaretta. Così almeno ti ricordavi dei colori, perché dentro c’eri solo Tu e le altre come Te: ombre. Solo questo: luci ed ombre”. Per questo ho scelto il B&N, per rispettare quelle parole: volevo vedere alla loro stessa maniera, provare (in minima parte) le loro stesse sensazioni. Volevo sentirmi parte di quei luoghi, mimetizzarmi, captarne l’essenza: il bianco e nero è silenzioso, lascia spazio alle emozioni, alle impressioni, agli istinti.

Avrai conosciuto molte storie, alcune probabilmente sospese, spezzate, di altre avrai connesso i vari fattori come fossero dei puzzle: ce n’è una che più di tutte ti è rimasta dentro?
Di storie ne ho sentite tante: intorno a questo tema ci sono racconti che nel tempo hanno trovato la compagnia di fantasie, leggende, persino entusiasmi. Storie che parlano di persone, altre che parlano di comportamenti, altre ancora di luoghi. Quello che più mi è rimasto dentro, per un motivo che non so definire, è un aneddoto in realtà, e parla toscano. L’ho ascoltato dalle parole di due anziani artigiani di Volterra, che per mia fortuna scelsero di accompagnarmi all’interno del parco dell’Ospedale Psichiatrico, che all’epoca era stato il loro ritrovo di giochi. Ricordavano di quando da bambini ricevettero per il loro compleanno due fionde costruite a mano, e si divertivano ad inseguire gli animali del parco lanciando i loro colpi. D’improvviso, mentre cercavano di colpire alcuni uccelli su un ramo, sentirono delle urla e si ritrovarono inseguiti da una donna proveniente da uno dei padiglioni del ‘manicomio’, che intendeva difendere il diritto alla vita di quegli animali: era Alda Merini.

Quale pensi possa essere il ruolo della fotografia da un punto di vista sociale?
Credo fermamente che la fotografia abbia grandi potenzialità, che abbia la forza necessaria a denunciare, il giusto tono per urlare ed il tocco leggero per raccontare. Credo che la fotografia sappia adeguarsi, inserirsi: è questa la sua vera grandezza. Trasporta, narra, rivela. In un mondo caotico sa, silenziosamente, esprimere tematiche, problemi e questioni che una società in preda alla fretta non nota, non guarda. Mi piace pensare che sia questo il suo valore aggiunto: fermare le cose, rallentarle. Quello che avviene dopo è una conseguenza: svelare e far discutere.
Ha un ruolo, si, ed è lo stesso da sempre: dar luce alle cose.

Se ti chiedessi di descrivermi l’amore attraverso un film, quale sarebbe?
Senza ombra di dubbio: “The Notebook”. Altri tempi, altri sentimenti, brividi, emozioni, occhi lucidi. Amare una sola donna per una vita intera, scegliere Lei anche quando Lei ha scelto altro, anche quando non si ottiene nulla in cambio, anche nel silenzio, sotto la pioggia, dopo anni, tra altre braccia, su altre strade, in un’altra casa, in un’altra vita. Cos’è l’Amore? Quello. E’ ossessione, è felicità delirante, è un vuoto distruttivo, è perdere il respiro in un solo bacio, è non cercare altro, è un vuoto incolmabile, è dare tutto te stesso, è sacrificio per un altro corpo, per un’altra anima. È roba per pochi immensamente fortunati.

Ringrazio Ivan per la disponibilità e vi invito a seguire i suoi lavori qui.

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Claudia Tornatore

Sognatrice, a tratti poggio i piedi sulla terra e ogni tanto salgo sulla luna. Laureata in scienze umanistiche, considero l’arte il fulcro della (mia) vita. La mia tesi? Arteterapia. Scrivo di fotografia, mi diletto con essa : è nella mia vita da che ho memoria, in fasi e forme differenti. Amo il colore, il tè nero, gli incontri inaspettati, i sorrisi, la voglia di cimentarsi in cose nuove e la mia bellissima Sicilia.

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