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Tangerine: la storia più bella è quella che accade...

Tangerine: la storia più bella è quella che accade sotto casa.


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Il caldo ci sta spremendo, e stiamo tutti aspettando di partire per qualche meta assolata ma, per l’amor di Dio vi prego, almeno ventilata. Per questo, nel luglio più caldo e sudato che riesco a ricordare, vi porto in California, a dicembre. La vigilia di Natale. Quando Alexandra e la sua migliore amica Sin-Dee Rella si danno appuntamento da Donut Time a Hollywood, ritrovandosi sopo i 28 giorni che Sin-Dee ha passato in carcere.
Le due amiche sono giovani transessuali che si prostituiscono per le strade di Los Angeles, e nel fiume di chiacchiere che si scambiano viene fuori il pettegolezzo secondo il quale Chester, pappone e fidanzato di Sin, l’abbia tradita. Con una donna. “A real fish” come la chiamano loro. Questi sono i presupposti del più magico dei natali e di un road movie basato su ironia, amore, amicizia e vendetta attraverso le sottoculture che popolano quella giungla che è L.A. Questo è Tangerine, film indipendente decorato con motivi mainstream e girato interamente con un Iphone, vera risposta della creatività alla castrante crisi economica dell’industria cinematografica (che a volte c’è a volte no, dipende da chi batte cassa).

Tangerine, film diretto da Sean Baker e co-sceneggiato con Chris Bergoch, ha debuttato al Sundance Film Festival di quest’anno, acclamato dalla critica affronta ora il pubblico nelle sale americane ricevendo lo stesso caloroso consenso, aprendo un’altra finestra sulla realtà transgender dopo Transparent, la transizione di Caitlyn Jenner e la serie documentario Becoming us.
L’idea per il film nasce dal desiderio di Sean Baker, recidivamente perseguito in tutta la sua produzione precedente, di puntare l’obbiettivo su vicende che nessuno racconta. Il Donut Time di Santa Monica Boulevard, centro di aggregazione di un quartiere difficile noto per il giro di prostituzione che ospita, diventa il posto perfetto per ambientare una storia che in quelle stesse strade affonda le radici.

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Le due attrici protagoniste, alla loro prima esperienza cinematografica, arrivano dal Centro LGBT di quello stesso quartiere. È Maya Taylor (Alexandra) ad attirare l’attenzione del regista, non solo per il suo desiderio di entrare nel mondo dell’intrattenimento ma anche per la passione e l’entusiasmo verso un progetto ancora tutto da costruire. Sarà Maya ad introdurre la sua co-protagonista a Baker, Kitana Kiki Rodriguez.

Le due, amiche nella vita vera tanto quanto sullo schermo, diventano il “dynamic duo” attorno al quale costruire un intreccio che si snoda su due linee narrative. Quella principale basata sul cuore infranto di Sin-Dee e il desiderio di vendetta nei confronti del maschio traditore e quella secondaria, composta dagli aneddoti emersi nel corso dell’elaborazione della sceneggiatura durante le lunghe conversazioni tra Baker, Bergoch e le due ragazze. Il tutto senza mai scadere in una rappresentazione pietistica di personaggi e contesto, un’esplosione di pura energia visiva ed emotiva.

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Dopo aver trovato il soggetto giusto, il cast e dopo aver steso la sceneggiatura, di solito si guarda dentro il portafoglio, e in base alla propria disponibilità si compila la lista della spesa. In questo caso: tre Iphone 5s, l’app Filmic Pro, un supporto steadycam, una serie di lenti anamorfiche e una bicicletta.
Non riduciamo però tutto al solo lato economico, questa è soprattutto una ponderata scelta artistica che ha permesso al regista di filmare “clandestinamente” nei quartieri più difficili di Los Angeles, passando quasi inosservato.
La fotocamera digitale di uno smartphone è un occhio meccanico al quale siamo tutti (forse troppo) abituati, e fornisce l’occasione di filmare la vita vera in divenire senza il rischio di inciampare in quell’instupidimento di massa che solo una telecamera accesa è capace di innescare.
Qualitativamente il film non ne risente, le immagini rimangono potenti, e torna alla memoria quel desiderio espresso da Warhol nel decennio sbagliato, di “essere una macchina“. Una macchina da presa in questo caso, per registrare quello che accade davanti ai nostri occhi in un locale che vende ciambelle.

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Beatrice Lombardi

Laureanda presso il CITEM di Bologna è nata 26 anni fa dal tubo catodico. Dopo anni di amore e odio con mamma Televisione e papà Cinema ha deciso di percorrere nuove strade ed è scappata con il Web.

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