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A colpi di luce 2.0: Gianluca La Bruna

A colpi di luce 2.0: Gianluca La Bruna


KABUL 24 marzo 2012

Dopo aver parlato di Food Photography con Carmen Mitrotta, questa settimana facciamo un bel viaggio tra Senegal, Europa e Afghanistan con il fotografo livornese Gianluca La Bruna. Vi anticipiamo le nostre serie preferite Kabul, la capitale undici anni dopoe “Donne di Kabul”. Consigliamo anche un’occhiata al sul blog.

Ciao Gianluca, il tuo rapporto con la fotografia ha avuto inizio imbiancando la camera oscura di un amico fotografo, mentre la tua prima macchina fotografica era una Pentax di tuo padre. Ti va di raccontarci chi sei e dove vivi?
Ciao Deianira, vivo a Livorno da sempre. Strimpello la chitarra, leggo, ascolto molta musica, guardo tanti film di cui non ricordo mai i titoli e cerco sempre il modo di viaggiare. Oltre alla fotografia, lavoro da circa sette anni per “Arci Solidarietà”. Seguo due progetti, il Centro di V. Eugenia e la Portineria Sociale di Condominio. Il primo è un Centro di accoglienza dove ricopro il ruolo di operatore sociale e gestisco i rapporti tra dodici uomini che coabitano. La Portineria, invece, è un progetto di mediazione sociale nato circa cinque anni fa nei quartieri popolari di Livorno. Qui ho realizzato anche una documentazione fotografica in collaborazione con tre etnografi, ricercatori dell’Università di Firenze.

Tra le tue serie troviamo dei luoghi lontani, ti andrebbe di raccontarceli? Eri partito con la macchina fotografica con l’idea di realizzare le fotografie oppure è nato tutto per caso durante i tuoi viaggi?
Dal momento in cui mi sono avvicinato alla fotografia, ho scoperto che poteva essere un’ottima scusa per viaggiare. Non semplicemente viaggiare, ma scoprire, studiare, approfondire e portare a casa ricordi e appunti da sviluppare.
I primi viaggi oltre Europa, come Russia o Senegal, sono nati proprio in funzione della fotografia. Il primo è stato in Russia insieme a un gruppo musicale della mia città, i Bad Love Experience. Stavano programmando di partire per due settimane a bordo di un furgone attraversando l’est Europa fino alla Russia. Mi proposi di andare con loro per documentare il tour. A quel tempo non sapevo nulla di reportage o di documentazione, avevo cominciato da pochissimo e non avevo l’attrezzatura adatta. Oggi, forse, tornerei dal viaggio con tutt’altro tipo di foto. Sto pensando di autoprodurre un libro sul tour, è un progetto ancora in fase di sviluppo.
Un’altra occasione fu il Senegal, andai con l’intento di scattare solo a pellicola per documentare le attività di un’associazione. Non riuscii a sviluppare il progetto come avevo pensato ma tornai con un buon bagaglio di esperienze.
Ora, se possibile, scelgo mete che mi incuriosiscano, per realizzarne una mia visione fotografica, ma non necessariamente parto con un progetto definito. Per la Norvegia, viaggio di puro piacere, ho messo nello zaino la biottica pensando “ci saranno sicuramente paesaggi incredibili da fotografare”. Da tre rulli ho stampato otto foto di paesaggi che esporrò a breve.

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Hai avuto qualche timore nel chiedere alle persone che incontravi di farsi fotografare? E’ un passaggio fondamentale nella realizzazione di un reportage, come ti sei trovato?
Sì ho sempre avuto timore nel porre la macchina fotografica in faccia a sconosciuti. Si affrontano molte questioni morali nel mettere uno strumento così freddo e meccanico tra il fotografo e un soggetto. A volte sembra quasi una violenza fisica e psicologica. Riflettendoci con attenzione, non sono l’unico a pensarlo, si possono trovare interi trattati che affrontano l’argomento. La macchina fotografica può modificare facilmente gli atteggiamenti e le situazioni delle persone ritratte. Credo che molti fotografi documentaristi si siano posti questo problema. Una soluzione è immergersi completamente nelle situazioni da fotografare, diventandone parte integrante. E’ un rendersi ‘invisibili’ ai soggetti, ed è esattamente ciò che voglio imparare, ancor più della fotografia. Essa, infatti, segue la relazione. Talvolta è proprio l’intensità di quest’ultima a determinare la qualità del risultato di una documentazione fotografica. Questo mi ha aiutato al campo profughi di Kabul, un ragazzo mi supportò nella comunicazione con i capi tribù del campo. Spiegai perché mi trovavo lì e mi ritrovai ad ascoltare le loro storie e i motivi per cui erano confinati in un posto del genere. Alla fine scattai foto intorno al campo con un capo tribù che mi faceva da Cicerone.

Che idea ti stai facendo del mondo della fotografia, sia dal punto di vista artistico che lavorativo?
La mia unica esperienza con un’agenzia di Milano fu a dir poco disastrosa. Mi ritrovai nel ruolo di collaboratore esterno senza uno straccio di contratto né garanzie di sorta. Al primo incarico di prova, non retribuito, mi spedirono di corsa alle spiagge bianche di Vada per una paparazzata. Si teneva uno shooting per il calendario di una soubrette. Tornai indietro con le foto e ottanta euro in meno a causa di una multa. A questo si susseguirono altre chiamate, tutte per faccende di cronaca, con lisciate e complimenti per i lavori svolti. Anche qui nessun guadagno o nome accanto alle foto pubblicate sui maggiori quotidiani nazionali. Tentai di proporre all’agenzia i miei lavori soprattutto con le foto dell’Afghanistan (in quel periodo uscì anche il rapporto di Human Rights Watch che lo indicava tra i paesi col più alto tasso di abusi sulle donne), mi risposero che al momento non se ne parlava quindi non vendeva.
La professione di fotografo, e in generale la fotografia, è in continua evoluzione così come l’editoria. Stare al passo significa adattarsi cercando di rimanere fedeli a se stessi. Ciò non è facile, spesso ti ritrovi ad investire in progetti senza ottenere un risultato soddisfacente. Parlo di giovani fotografi che conosco, a mio avviso validissimi, che trovano molta difficoltà ad affermarsi ed emergere.
Ad un workshop ho conosciuto una fotografa con diversi anni di esperienza in fotografia di reportage, aveva appena vinto la menzione d’onore del Word Press Photo. Raccontò di avere anche un secondo sito di fotografia di matrimoni. Spiegò le difficoltà da affrontare per avere i fondi necessari da investire nei propri progetti. Ovviamente non è una critica alla fotografia di matrimoni, ho svolto anche io dei lavori in quel campo, ma è sempre qualcosa che fa riflettere. Ripongo anche molta fiducia nei media e nel web, perché hanno un alto potenziale e sono una buona vetrina sia per esprimersi che per mostrare il proprio lavoro.

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Delle tue serie, quella che apprezzo di più è “Kabul, la capitale undici anni dopo”. E’ una serie che vorrei approfondire, per il paese che hai scelto e per le dinamiche che ti hanno condotto al risultato finale.
Non ricordo di preciso perché ho scelto Kabul. A posteriori posso dire che l’Afghanistan in quel momento mi attirava e mi attira tuttora. Credo sia per i trent’anni di guerre, per la distruzione umana, culturale e sociale. Circa un anno e mezzo fa, ho studiato il modo a me più congeniale di realizzare fotografie che raccontassero la condizione femminile. Feci un primo incontro nella redazione di un giornale per avere più informazioni riguardo la burocrazia e i rischi che avrei dovuto affrontare durante il viaggio. Più tardi mi ritrovai a parlare del mio progetto con la ricercatrice con la quale lavoravo alla documentazione sui quartieri popolari della mia città. Mi mise in contatto con un coordinamento italiano di sole donne che sostiene tre associazioni che operano a favore dei diritti di donne e bambini. Come per il Senegal volevo scattare a pellicola, ma pochi giorni prima della partenza, sapendo che insieme a noi sarebbero venute anche due giornaliste, decisi di portare soltanto l’attrezzatura digitale, in caso fosse necessario lavorare velocemente. L’attrezzatura che avevo con me era ingombrante e pesante ma, non sapendo cosa mi aspettasse, decisi di affidarmi a chi aveva un programma ben delineato. Nel frattempo volevo dedicarmi a progetti personali, un esempio è “Mezz’ora al campo Helmand“. In quella settimana ho condensato diversi approcci lavorativi, scattando dalle auto che ci portavano in giro per la città, come nella serie “Kabul, la capitale undici anni dopo. Ho dato spazio anche a fotografie che avevo in mente, “Donne di Kabul”. Lo scorrere degli avvenimenti ha scandito diversi tipi di approccio umano e fotografico e credo che questo si percepisca nei diversi progetti. Ho avuto la fortuna di partire insieme a un coordinamento italiano con molta esperienza sul territorio.
Conoscere donne e uomini che saranno il futuro dell’Afghanistan mi ha aperto la mente sul tipo di lavoro che volevo e voglio continuare a rappresentare con la fotografia.

Ci sono diverse personalità fotografiche. Fotografi molto razionali che programmano tutto, location modelle, soggetti, luci. Altri, invece, che si fanno guidare dal momento. Altri ancora lavorano sull’autoritratto, oppure, creano e raccontano storie con le loro fotografie. A cosa ti senti più vicino e quale sarà il tuo prossimo passo?
Al momento mi sento un mix di tutte queste personalità. Come freelance cerco di adattarmi ai vari lavori che mi vengono proposti. Lavorare per poi investire in progetti a cui credo e che sento miei. Il prossimo passo sarà proprio la ricerca di un ambito lavorativo in cui sentirmi a mio agio e dove potermi esprimere al meglio. Nel frattempo sto organizzando un workshop che terrò a metà Aprile, durante il quale sia io che i partecipanti saremo immersi nella campagna toscana. L’occasione parte da un mio progetto, ancora in corso di documentazione, sulle realtà italiane che hanno deciso di muoversi verso la campagna in un’ottica di autosostentamento.

Gianluca ti ringrazio per questa intervista. Come ogni settimana, vorrei sapere quale libro hai sul comodino, un film che dovrei assolutamente vedere e uno dei tuoi fotografi preferiti.
Libri attualmente sul mio comodino, “Robert Capa, tracce di una leggenda” di Bernard Lebrun e Michel Lefebvre, “Un comportamento irragionevole” di Don McCullin, “Fotografia situazionista della rivolta” di Pino Bertelli, “La fame e l’abbondanza, storia dell’alimentazione in Europa” di Massimo Montanari. Film assolutamente da vedere ce ne sono una miriade. Uno che ho visto di recente è “No man’s land” di Danis Tanović, rigorosamente in lingua originale ma consiglio anche il documentario “The Act Of Killing” di Joshua Oppenheimer. Fotografi, invece, Francesco Cito e Vivian Maier, la lista sarebbe lunghissima.

Ringraziamo Gianluca La Bruna per questa intervista, vi invitiamo a visitare il suo sito www.gianlucalabruna.com

Senegal

KABUL 24 marzo 2012

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Deianira Vitali

Da quando vivo a Roma, penso al cibo per buona parte della giornata. Abbandonati i cocktail serali, ho scoperto l'amore per lo Jagermeister. Il lavoro è solo una pausa tra le mie instancabili ricerche: arte, fotografia e grafica. E quando il sonno tarda ad arrivare, c'è sempre tempo per disegnare.

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